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La nuova morte – terza parte

Perché quei morti che risorgono vengono consegnati a una morte che molti – in tanti dialoghi sparsi – considerano una definitiva consegna al nulla. Black Summer inizia con una lunga sequenza nella quale una famiglia di tre elementi – padre, madre e figlia – corrono disperatamente in una cittadina nella quale tutti cerano disperatamente di dirigersi in una certa direzione. È successo qualcosa, qualcosa di gravissimo; si sentono urla e spari. Nella lunga sequenza di oltre 7 minuti non si capisce cosa stia succedendo ma si intuisce che c’è una forma di infezione immediata che si propaga con il sangue e la morte. La figlia viene portata via dai militari e quando il marito della donna muore, perché è ferito, istantaneamente si trasforma in una sorta di rabbioso e affamato mostro. Quando un altro personaggio lo uccide, sparandogli alla testa, la famiglia resta per sempre distrutta. Colpisce che la donna non guardi l’uomo con cui ha generato una figlia, non gli dedichi nemmeno un pensiero. Dice al nuovo salvatore, un delinquente che ha preso la divisa da un soldato morto: “portami via”.

Nessuna speranza nel regno della morte

Prima di morire il marito le aveva detto: “Non ci sono possibilità per noi, non esiste un piano B, siamo soli”. I morti risorgono subito, diventano tutti dei mostri e cancellano ogni ricordo che di loro si aveva: la disperazione è totale. Non c’è nemmeno il lento tempo di incubazione che si osserva in Walking Dead. Spesso i sopravvissuti in una sezione anche lunga del racconto (che nelle serie televisive può prendere una o più stagioni) cercano dei luoghi di cura, ma questi sì. Rivelano illusori e impotenti: la California di Z Nation, il Center for Infective Diseases di Atlanta di Walking Dead, lo stadio di Black Summer. In quei luoghi si spera di trovare un rifugio che non c’è, e questa de-moralizzazione prende anche lo spettatore. Al tempo dei film di Romero, girato in 16 mm e in bianco e nero (poi rifatto dallo stesso regista nel 1990), furono fatte letture politiche e sociologiche del tema (la guerra in Vietnam, ad esempio; il razzismo poiché il protagonista era di colore). Con il successivo Zombi (1978), ambientato in un grande magazzino di Pittsburgh, si fece prevalere una lettura di tipo politico-sociologica: i morti viventi sono i consumatori di un mondo consumista immanente. Successivamente i film di Romero, che nel complesso ha diretto 4 film sul tema, hanno avuto letture varie, ad esempio l’ultimo del 2005, Land of the Dead, fu interpretato come metafora del terrorismo. Tutte queste letture “sociologiche”, legate alla contingenza politica, possono avere una validità parziale. Il tema dei morti che risorgono nella carne, nella stessa carne in cui sono vissuti, guidati dalla pulsione unica di mangiare il cervello dei viventi, tormentati ferocemente, va fenomenologicamente inquadrata nella metafora della negazione della vita eterna. Queste immagini si imprimono nella memoria di chi, giovane, le guarda.

Questi morti, quando muoiono perché si spara loro nel cervello, muoiono per sempre? Se avevano un’anima, ha già lasciato il corpo? Talvolta conservano una sorta di memoria di ciò che erano stati e questo pone un problema. Ad ogni modo, la gran parte delle narrazioni della popular culture pare negarlo: non c’è anima, non c’è un dopo. Per i propri morti che si sono trasformati in “zombie” (il temine è poi variato e lo stesso Romero usava soltanto living dead) non si dicono preghiere. In tutte le serie più recenti, quando si seppelliscono dei morti non si piantano più croci. Ancora: se i living dead del film di Romero nel 1968 potevano essere sconfitti e venivano alla fine bruciati, negli ultimi decenni la tendenza è temere per un’infezione generalizzata, invincibile. Anche quando sono fatti a pezzi, i living dead continuano a vivere. Se la testa staccata dal corpo e ancora è integra, per consenso di rappresentazione, essa continua, disperatamente e orribilmente, a guardare e ad aprire la bocca nel tentativo di mordere. Nella serie di maggior successo in assoluto, The Walking Dead (2010-2019 in produzione), si può vedere, anno per anno, stagione per stagione, come la putrefazione di quei corpi continui.

Walking Dead

Dopo diverse stagioni che equivalgono a quasi altrettanti anni nel tempo del racconto, essi sono ridotti quasi a scheletri, ma continuano a camminare, a branchi, lentamente, inesorabilmente. Nell’universo narrativo di Walking Dead (che ha dato origine a una serie derivata, scritta e disegnata da Robert Kirkman: lo spin-off Fear – The Walking Dead, 2013-2019) l’umanità vive in piccoli gruppi che si fanno la guerra, spesso insensatamente, per scambiarsi le poche risorse. Ma la serie fa balenare l’idea che tutti siano già infetti, che siano dei dead living: vivono ma sono già morti. Dopo la breve stagione in cui saranno feroci zombie sarà l’annichilimento. Non viene detto esplicitamente è ciò che le immagini suggeriscono. I personaggi che hanno fede, i cristiani della serie, poco a poco abbandonano i simboli della loro religione o vengono presi in giro. Soltanto uno, un reverendo episcopaliano, continua a vivere indossando un clergyman. Fino alla quarta stagione, i segni della fede in qualcuno restano: nella prigione nella quale si sono rifugiati, i sopravvissuti seppelliscono i loro morti, segnando le fosse con croci. Ma nelle stagioni successive i morti della comunità vengono seppelliti e le fosse identificate con pali o assi sui quali viene scritto un nome. Al di là del caso di Walking Dead, il più complesso, cosa ci dicono i living dead se non il timore della morte senza orizzonte e che tutto finirà con la putrefazione del corpo? Non ci dicono forse che questa prospettiva è dura da accettare? Si può azzardare una lettura metaculturale del fenomeno? Sicuramente esso rappresenta un calo del sentire religioso o, peggio, lo mette in scena per rafforzarlo. In queste produzioni la sacralità del corpo viene negata, irrisa; e la speranza religiosa sottoposta a una critica feroce. In The Walking Dead, all’inizio del percorso narrativo vi sono gruppi di persone che leggono “teologicamente” ciò che sta succedendo, magari considerandola una vera e propria apocalisse o l’Apocalisse, così come è stata annunciata. Ma molte cose non tornano. In Z Nation, Murphy, il salvatore, è una parodia di Messia.

In queste serie, i personaggi che continuano a credere che quella non sia la vera, ultima, resurrezione promessa, viene ridotto al silenzio. Nella seconda serie di The Walking Dead, si mostra la disperata ricerca di una bambina smarrita, Lucy. Quando viene trovata, dopo tanta preghiera e speranza, è diventata una living dead e viene abbattuta. Prevale la disperazione: quelle creature sembrano la prova che non può esistere una vita eterna. La vita eterna è quella che i morti vivono quando sono animati dal virus che li agita: se nessuno gli distruggesse il cervello, probabilmente continuerebbero ad agitarsi sino a quando non fossero consumati del tutto.

I nuovi resuscitati

Il sottogenere di produzioni sui living dead ispirano una visione antitetica a quella cristiana, talvolta compiaciutamente esibita, talvolta più nascosta. Naturalmente vengono prodotti anche film, come Apocalisse Zombie (2011) o I famelici (2017) o The Rezort (2016) di produzione americana, canadese e tedesca (ma quelli americani sono decine). Esistono anche serie di produzione orientale, come la coreana The Kingdom (2019) che rispettano i canoni del genere trasferendoli in quella cultura. Tutte queste produzioni hanno una struttura simile: quando i morti si trasformano un gruppo di sopravvissuti cerca di raggiungere un luogo di salvezza, ma invariabilmente la speranza muore. Non c’è scampo. In questo senso, tutte queste produzioni – e anche i romanzi da cui spesso sono tratti – sono parte di una temperie di de-moralizzazione, da intendersi nel senso proprio del termine: alla fine è sempre la morte a trionfare. Oltretutto, gli effetti speciali odierni consentono di rappresentare questi morti che si agitano con una impressionante esattezza anatomica, nelle fasi diverse della putrefazione. Sono gli stessi cadaveri che sono stati analizzati per anni nelle serie di CSI Las Vegas (2000-2015), CSI, New York (2004-2013) e CSI Miami (2002-2012): soltanto che lì non si rianimavano.

In queste serie, poi, a parte qualche caso di persone che riescono a conservare la loro integrità, la gran parte degli esseri umani pare diventare insensibile e feroce: tutti sono in lotta con tutti e anche i buoni, non di rado, temendo per la propria sopravvivenza o quella del loro gruppo, abbandonano persone che condannano a morte certa. È come se l’apocalisse zombie portasse alla luce la vera natura dell’essere umano, che nessuna religione, nessuna morale, se non quella del gruppo, riesce più ad addolcire. Se queste produzioni hanno successo i produttori trovano ogni giustificazione per continuarle, nonostante ciò è difficile sfuggire al sospetto che essi si facciano complici di qualche forma di social engeneering, di riprogrammazione mentale – parziale certamente: nulla va esagerato – soprattutto nelle menti più giovani. La cultura dominante, desacralizzata e laica, produce nell’immaginario questo tipo di morti non morti. E qui, a differenza di quanto accadeva nelle fiabe tradizionali, non c’è riscatto, salvezza o redenzione.

[Leggi la prima parte]

[Leggi la seconda parte]

Mario Arturo Iannaccone

Mario Arturo Iannaccone

Mario Arturo Iannaccone si è laureato in Lettere all’Università degli Studi di Milano, specializzandosi in Storia del Rinascimento. È romanziere e saggista. Insegna Scrittura Creativa all’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia. Ricercatore storico e studioso di storia dell’immaginario e delle idee, ha pubblicato molti libri e centinaia di articoli, collaborando con mensili, settimanali e quotidiani.

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2 risposte

  1. Avatar Egle ha detto:

    Mi viene in mente una frase di Oliviero Beha : “Per morire bisogna essere vivi”
    E per essere vivi, occorre avere integrato nella vita il concetto di morte e del suo simbolico limite .
    Mi sembra che oggi Dio non sia solo morto , ma che l’uomo viva cercando di sostituirlo.
    L’accessibilità superficiale a tutto , illusoriamente senza limiti , mi fa venire in mente il mito di Narciso che voleva raggiungere la sua immagine e nel tentativo di farlo si distrusse.
    In questo senso la non morte degli zombie rappresenta la condanna eterna di chi non considera l’Altro , come spazio infinito di ricerca , e di conoscenza della Verità: una condanna che non ha mai fine perché votata a possedere e definire un Se’ irraggiungibile .
    Infatti chi è l’uomo che al di fuori di regole sociali e civili , continua a mantenere la sua umanità?
    Chi è a contatto con il valore prezioso del senso della vita ( e della morte) .
    E qui mi viene in mente The Terror, serie televisiva molto interessante , in cui il conflitto è messo a nudo ; sulle navi , gli uomini si sentivano su solo inglese ; condividevano valori , codici e comportamenti , al gelo e messi di fronte al misterioso elemento,e dunque ostile, ogni certezza crolla , persino la più radicale : l’umanità.
    L’unico uomo che rimane tale è colui che si allontana dalla civiltà.
    Forse a cercare una nuova morale , una nuova religione , un diverso senso.

  2. Mario Mario ha detto:

    Grazie, Egle. Commento molto interessante e intelligente.
    “The Terror”, vero. L’ho visto: notevolissimo e inquietante.

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