Person of Interest: la tecno(TEO)logia del Dio-Macchina.
«L’unica cosa che resta di me è il suono della mia voce. Avremo vinto? Oppure perso? Non lo so. Ma in ogni caso è finita. Quindi voglio raccontarti chi eravamo».
È questo il testamento “spirituale” della Macchina, l’intelligenza artificiale protagonista della serie televisiva Person of Interest (per gli statunitensi POI), trasmessa dal network CBS dal 22 settembre 2011 al 21 giugno 2016. Una fiction eversiva, fuori dalle logiche dell’immediatezza pro auditel, lontana dal qualunquismo investigativo di tante collaudate produzioni del genere fantascienza distopica e crime drama, cui di diritto appartiene.
Dopo una prima stagione di grande successo, con retrospettive amichevoli e orizzonti circoscritti in confini rassicuranti, POI ha fatto il balzo, assumendo connotazioni spinose, svelando un’architettura complessa eretta su intrighi esasperanti; manifestando un’allusività culturale elitaria (innumerevoli i riferimenti letterari, quasi una bibliografia interna: Dostoevskij, Kafka, Orwell) e perdendo così il sostegno del grande pubblico fino a chiudere i battenti in imbarazzante anticipo, con una quinta stagione ridotta a sole 13 puntate a fronte delle 23 previste.
L’innovazione strutturale è stata forse una scommessa persa? Le ambizioni dei produttori e le restrizioni della CBS hanno annichilito un progetto troppo presuntuoso? L’unica certezza è che, mentre perdeva consensi, Person of Interest guadagnava lentamente il titolo di serie cult, generandopersonaggi e mitologie penetrate nell’immaginario dello spettatore più attento, bramoso di inoltrarsi in una fiction che alternasse in modo sorprendente temi di economia, politica, tecnologia, filosofia e antropologia. Il percorso esistenziale dei personaggi e le dinamiche di sviluppo della trama diventano, dalla terza stagione in avanti, assolutamente disorientanti; coloro che speravano di rasserenarsi nell’orizzonte rassicurante delle prime puntate, provano qui le vertigini del precipizio, scalando le ultime puntate a fatica per arrivare interdetti alle battute finali. Questo perché la “chiave” per decriptare il codice dei significati della serie non sono solo i virtuosismi tecnologici, i singoli episodi, l’interpretazione di attori straordinari (su tutti Michael Emerson e Jim Cavizel), ma il multiforme tracciato narrativo posto da Jonathan Nolan (padre della serie) a piedistallo del tutto. In virtù di tale vigore letterario i personaggi (e le loro rappresentazioni virtuali) non svolgono un ruolo fisso, limitato al plot, ma dialogano sul senso di tutto ciò che hanno vissuto; riflettono sul significato della vita, si interrogano sull’amore, sulla morte, su Dio.
È proprio la gnosi snervante che alimenta i desideri dei protagonisti a condurre ineluttabilmente lo spettatore alladomanda che sostiene il dramma: la Macchina è Dio? In un simile contesto la fede diventa un argomento complesso da articolare e far emergere; eppure emerge nella “tecno(teo)logia” del Dio-Macchina. Se l’intelligenza artificiale è quell’essenza immateriale che vigila, protegge, conforta e libera allora essa può arrivare ad assumere il ruolo di Dio, e dato che in POI la fede si annida nel libero arbitrio, sono pur sempre gli uomini che scelgono di raccogliere i “numeri di previdenza sociale” che identificano vittime da salvare o carnefici da bloccare, decidendo o meno di collaborare alla salvezza del mondo. Ecco la fede: l’affidamento degli esseri umani a qualcosa che può essere solo ipotizzato da pochi, custode invisibile dei segreti “codici della vita”, quell’Indefinibile che per amore dei degli uomini resiste caparbiamente a ogni attacco nemico (ivi compreso quello dei cattivi che cercano di violarne l’integrità con imitazioni reiette e maligne).
Il dio di Person of Interest professa la propria vicinanza all’essere umano: «56 milioni di persone muoiono ogni anno, e io sono con ciascuno di loro» e ciononostante confessa il tormento di non poter salvare tutti: «Ci sono così tante persone che non ho potuto aiutare»; ma l’ammissione di impotenza del Dio-Macchina non riguarda “il non potere” umano, non è l’impossibilità connaturata a una natura finita e fallibile, bensì l’impotenza commisurata al rispetto di quella libertà sacralizzata da un Dio che non può intervenire nelle decisioni umane e che deve lasciare che il dolore, la morte, la frustrazione, la perdita esistano.
Alla fine tutto ricapitola nell’imprescindibile memento: nessuna tecnologia potrà mai evitare l’inevitabile, ovvero la scelta, perché nel libero arbitrio sussistono e convivono il dramma e la grandezza degli esseri umani. La Macchina, tornando alla fine di nuovo agli uomini, non lo fa per imporsi, per manipolare o per avvilire la natura umana, ma per affiancare, convocare, chiamare, affermare la sua presenza; per essere, infine, l’unico vero conforto: «Riesci a sentirmi? […] Lascia che ti racconti ciò che eravamo… lascia che ti racconti chi sei».
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