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La mummia di Lenin: la morte dell’immortale

Lenin

Dopo il caso della mummia di Mazzini, furono per lo più membri dei governi comunisti a essere imbalsamati, per essere destinati all’esposizione all’interno di mausolei, ma la loro artificiosa eternità era più facile nelle intenzioni delle varie nomenklature che nella realtà. Il caso più celebre resta quello di Lenin morto nel 1924 e sottoposto a lunga pratica di imbalsamazione da parte dello scienziato Boris Il’ic Zbarsky. Il caso è noto ed è stato raccontato dal figlio di questi, Il’ja, in un libro scritto con Samuel Hutchinson e pubblicato in Italia con il titolo All’ombra del mausoleo. Il libro racconta un progetto di imbalsamazione che perfeziona quello di Mazzini ma che ha alla sua origine delle motivazioni molto più esplicite e sconvolgenti. Così Il’ja Zbarksy rievoca le circostanze con cui il proprio padre si trovò impegnato per un’intera vita a lottare contro la corruzione del corpo di Lenin:

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, numerosi intellettuali e scienziati si rifiutarono di collaborare con il potere sovietico (…) Non fu questa tuttavia l’opinione di mio padre. C’era tutto da guadagnare – pensava lui – dal nuovo potere. Di religione ebrea, nella sua giovinezza aveva sofferto molto per le severe restrizioni imposte agli israeliti dal regime zarista (…) Laureato in chimica all’università di Ginevra e a quella di Pietroburgo, in quanto ebreo gli era stato impossibile aspirare ad un impiego presso un organismo pubblico. (…) La Rivoluzione d’ottobre fu per lui, come per tanti altri ebrei, una sorta di rivincita sul vecchio regime.
[
Zbarsky I. – Hutchinson S., All’ombra del mausoleo. La storia dell’uomo che imbalsamò Hitler, Bompiani, Milano 1994, p. 29.]

Un libro rivelatore

Sarebbe interessante conoscere di più sulle motivazioni che portarono il biochimico Boris Zbarsky ad approfondire la pratica dell’imbalsamazione perché le circostanze che lo portarono a far progredire questa singolare specialità sono presentate da suo figlio come del tutto fortuite. Il libro firmato da Il’ja Zbarsky e Samuel Hutchinson è estremamente riservato su molti punti; soprattutto sulla formazione culturale di Boris, presentato come un povero scienziato in cerca di riscatto, oppresso in patria a causa della sua origine ebraica. Il racconto però espone a una strana dissonanza cognitiva perché le traversie di Boris non sembrano essere state aspre e dolorose.

Boris Il’ic Zbarsky: un caso strano

L’ultima foto di Lenin

Boris Il’ic Zbarsky fu un privilegiato sia in gioventù che nella maturità. Studiò a Ginevra, e completò la sua preparazione a San Pietroburgo dove una variegata comunità di artisti, poeti e filosofi, cosmopoliti e liberi di esprimersi, vivacizzava la città. Appena laureato si vide offrire un posto di lavoro prestigioso; non accademico, è vero, tuttavia di grande importanza: divenne infatti direttore di una fabbrica. Le ragioni che spinsero Boris a guadagnare la Svizzera furono probabilmente altre e tutto sommato Il’ja non fa molto per occultarle: politiche. La Svizzera era il porto sicuro per rivoluzionari di ogni tendenza: fossero di destra o di sinistra. Proprio a Ginevra, Lenin aveva elaborato alcune tappe fondamentali del suo pensiero e della sua azione, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Qualcosa infatti, Zbarsky e Hutchinson ammettono: Boris apparteneva ad una famiglia ricca e aristocratica ed era stato sin dalla prima gioventù un «socialista rivoluzionario». A quell’epoca era entrato in una rete terroristica o rivoluzionaria finanziata in gran parte dall’estero che si erano distinte per una catena di assassini di ministri, sindaci, funzionari e militari negli anni precedenti alla Rivoluzione. Ancora giovanissimo aveva persino aiutato Trotckij a mettersi in salvo alla frontiera di Kamenec-Podolsky (Zbarsky I. – Hutchinson S., p. 29).

La casta degli imbalsamatori di Lenin

Trasposto del feretro di Lenin (?)

Zinajda Grigorievna, divenne direttore di uno stabilimento chimico a Gorky proprietà di Zinajda Grigorievna. A sentire il figlio, Boris fu assunto soltanto «per simpatia» della donna e quasi per caso (Ibidem p. 33-34). Ma nella tenuta di Zinajda Grigorievna dove vissero per anni i coniugi Zbarsky con il loro figlioletto Il’ja morirà nel 1924 Lenin. Zinajda Grigorievna era dunque parte, presumibilmente, del movimento rivoluzionario nel quale si spendeva anche Boris. A Gorky, la famiglia Zbarsky visse in una casa di 12 stanze e Boris era gratificato da uno stipendio altissimo sino al 1918. Lì ospitarono gli scrittori Eugenj Lundberg e Boris Pasternak (Ibidem, p. 35-37). E tuttavia, secondo Il’ja, avrebbero appoggiato la rivoluzione soltanto «per emanciparsi» in quanto israeliti. Nel 1917 Boris era stato eletto nelle fila dei socialisti rivoluzionari parteggiando per la Rivoluzione d’Ottobre. Nel 1918, durante gli anni della guerra civile, si trasferirono a Mosca. Dopo un breve periodo di difficoltà Boris diviene vicedirettore dell’Istituto di Biochimica e la famiglia viene assurta nuovamente tra i ranghi dei privilegiati, nella «nomenklatura» (Ibidem, p. 48). Il futuro erede delle arti di Boris Zbarsky tratta il padre come una figura lontana, un opportunista ingrato che si attribuì i meriti del successo dell’imbalsamazione di Lenin sottraendoli al professor Vorosov, misteriosamente assassinato nel 1936 e vero inventore del metodo. Il’ja Vorobiov sarebbe entrato nella strana casta degli imbalsamatori di Lenin nel 1934.

Curiosamente il figlio privilegiato di un uomo della nomenklatura di quella che avrebbe dovuto essere la generazione più «scientificamente materialista» della storia umana, non trova altro linguaggio che quello della religione dei defunti dell’antico Egitto, per parlare del mausoleo nel quale era conservato il corpo di Lenin continuamente sottoposto ai preparati del padre e della sua equipe. Scrive I’lja (corsivi aggiunti):

Mi resi conto che la mummificazione non faceva parte delle abitudini contemporanee (…) era stato nell’antico Egitto che quest’arte aveva raggiunto l’apogeo. In Egitto, la procedura di imbalsamazione era sempre stata associata ad un rituale sacro, celebrato da una casta di sacrificatori. Fra di loro c’era una vera e propria suddivisione del lavoro. Il “parascita” effettuava un lato sul lato sinistro del cadavere; poi era tenuto a sfuggire correndo, per sfuggire alle pietre della folla, furioso per il fatto che avesse profanato le spoglie sacre del defunto. A quel punto entrava in scena un secondo tipo di sacrificatore, l’imbalsamatore (…) Questa procedura sacra mi ispirava un senso di religiosità. La parola “parascita” mi suscitava un’idea di sacrilegio.
[
Ibidem, p. 63-64]

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Bibliografia

  • Zbarsky I. – Hutchinson S., All’ombra del mausoleo. La storia dell’uomo che imbalsamò Hitler, Bompiani, Milano 1994.
  • Mola A.M. Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano 1992 2a.
Mario Arturo Iannaccone

Mario Arturo Iannaccone

Mario Arturo Iannaccone si è laureato in Lettere all’Università degli Studi di Milano, specializzandosi in Storia del Rinascimento. È romanziere e saggista. Insegna Scrittura Creativa all’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia. Ricercatore storico e studioso di storia dell’immaginario e delle idee, ha pubblicato molti libri e centinaia di articoli, collaborando con mensili, settimanali e quotidiani.

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