Sibilla Aleramo e gli inquieti spiriti delle tenebre – prima parte
Quelli fra Sibilla Aleramo e i suoi amanti sono vincoli incostanti, trame avviluppate intorno a nodi oscuri e problematici: abuso, tradimento, esoterismo, pratiche magiche, alchimia, iniziazioni cui si assommano i legami non sempre chiari con la politica. Lei, Sibilla, al secolo Marta Felicina Faccio (1876-1960), è l’autrice, tra gli altri, del romanzo Una donna (1906), un manifesto femminista, nel quale racconta la sua vita di ragazza, segnata dalle ire del padre-padrone Ambrogio Faccio (1851-1927), un ex insegnante di chimica che a trentasette anni viene chiamato a dirigere una grande fabbrica di bottiglie nel civitanovese.
Di lui la figlia riporta l’atteggiamento «emanante volontà di potere», imposto tanto ai familiari quanto agli operai della fabbrica. Del resto, è un rigore tipico dei dirigenti industriali del tempo, che amministrano tra regolamenti duri, multe, decurtazioni dei salari, licenziamenti improvvisi. È una società in evoluzione, fatta di contrapposizioni alimentate dal costante rinforzo politico delle nascenti sezioni del Partito Socialista Italiano (quella nata nel 1893 a Porto Civitanova è una delle prime sezioni locali del Psi in regione). E, in ogni caso, nonostante Sibilla Aleramo rimproveri al padre l’«atteggiamento di ferro» nei confronti dei lavoratori della vetreria, da diversi passaggi di Una donna emerge anche il suo stesso disprezzo verso questi uomini: contadini e pescatori inurbati, incivili e ignoranti, per loro natura lenti ad apprendere.
L’unione infelicissima
Da quanto racconta nel suo romanzo autobiografico, è proprio nella fabbrica del padre, dove lavora come contabile, che, ancora giovanissima, viene circuita e abusata da un operaio, Ulderico Pierangeli. Obbligata a un matrimonio riparatore con l’uomo, dall’unione «infelicissima», dopo un primo aborto, il 3 aprile del 1895 nasce Walter, che però non la solleva, come sperato, dall’oppressione di una vita che detesta, di fatti tenta il suicidio solo un anno dopo, seguendo l’esempio dalla madre Ernesta Cottino che aveva provato a uccidersi nel 1889 e che morirà nell’ospedale psichiatrico di Santa Croce a Macerata qualche anno dopo.
Tra l’altro, il legame con il figlio non esisterà mai, tanto è vero che, dopo averlo abbandonato lasciando il tetto coniugale nel 1902, restano separati per trent’anni, fino al 1934. In diverse lettere di vari tutori e amici di famiglia la donna viene informata che Walter «non vuol saperne della madre sua», e che «Egli nulla sente e […] nulla sentirà mai per Lei» (Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita Raccontata e illustrata, a cura di Bruna Conti e Alba Morino, Feltrinelli, Milano 1981, p. 41). La stessa Aleramo riferisce dopo il loro incontro nel ‘34 «Tristezza irreparabile del nostro rapporto, dappoi che ci siamo rivisti dopo i trent’anni d’intervallo e invano abbiamo provato a sentire come una realtà il fatto ch’io sono sua madre e che lui è mio figlio» (Sibilla Aleramo, Un amore insolito. Diario 1940/1944, Feltrinelli, Milano 1979, p. 57).
Agli inquieti spiriti è dolce la tenebra
La giovane Faccio, donna dall’ovale perfetto, dalla bocca sensuale e tragica e dall’equilibrio psichico perennemente compromesso, funestato da depressioni, dismisure emotive, e un primo accenno di bulimia sessuale, abbandona dunque il marito nel 1902, istigata dall’amante di quegli anni, il poeta e romanziere Giovanni Cena (1870-1917), direttore della influente rivista di cultura, politica e costume Nuova Antologia (e principe di alcuni dei più importanti salotti culturali romani), conosciuto a Torino in casa di un’amica comune e ideatore per lei del nome d’arte con il quale passerà alla storia. Inizia così a dedicarsi con sempre maggiore passione alla redazione di scritti e articoli per varie riviste politicamente impegnate, tra gli altri la Gazzetta letteraria, L’Indipendente di Trieste, la rivista femminista Vita moderna, e il periodico di ispirazione socialista Vita internazionale.
Ancora immersa nella vita da bohémienne offertale da Giovanni Cena, convinto assertore della libertà sessuale, femminista e neo-umanista, nell’agosto del 1916 Sibilla Aleramo incontra Dino Campana (1885-1932) all’epoca poeta quasi ignoto, poi rappresentante del Novecento lirico italiano nelle sue più fitte inquietudini, che evoca in visioni oniriche e in ossessioni gotiche nei suoi Canti Orfici (1914), in cui sussurra ispirato che «agli inquieti spiriti è dolce la tenebra» (Il canto della tenebra, in Canti Orfici, 1914). Anche lui è affetto da crisi nervose che lo portano a frequenti ricoveri in manicomio, nonostante questo – o forse grazie a questo – i due si capiscono al volo e diventano amanti, ma la relazione, ardente e tumultuosa, si conclude nel 1917. Di lei, Campana scrive alla moglie del futurista Giovanni Papini (1881-1956) «Questa carogna è piombata su di me come la collera di Dio», e alla stessa Aleramo «Mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l’illusione che una volta tu mi abbia amato è l’ultimo male che mi puoi fare» (Dino Campana a Sibilla Aleramo, Marradi, 27 settembre 1917, in Sibilla Aleramo, Dino Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, a cura di Bruna Conti, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 126).
Le lunghe estati calde
Ad ogni modo, in quegli anni si susseguono per la Aleramo vari amanti: lo scultore e pittore Umberto Boccioni (1882-1916), conosciuto a Milano, che la introduce nel movimento Futurista presieduto da Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944). Quando Boccioni la lascia, dopo la terza notte d’amore bollandola come «melensa sentimentale», lei cerca inutilmente di riconquistarlo, per poi rinunciare e trasferirsi a Parigi, dove viene ricevuta nella sede del Cahiers de la Quinzaine, il periodico culturale cuore del dibattito per gli intellettuali francesi. A Parigi la Aleramo conosce anche Gabriele D’Annunzio (1863-1938), che però non la apprezza particolarmente. Nel frattempo diviene l’amate del pittore Michele Cascella (1892-1989), del poeta Clemente Rebora (1885-1957) e dello scrittore Giovanni Boine (1887-1917), i tre uomini con cui si divide nella calda estate del 1914. Tutte esperienze, relazioni, fiammate e abbandoni dei quali Sibilla Aleramo scrive in modo compulsivo: romanzi mai conclusi, lettere ricopiate più volte e inviate a diversi destinatari, poesie, racconti, articoli, pensieri isolati, pagine di diario che alimentano un corpus che non è letterario, ma prevalentemente autobiografico e, diremmo, compulsivo, legato a quella sorta di nevrastenia letteraria – ed emotiva – che la contraddistingue e che segnerà uno degli incontri più importanti della sua vita, quello con la futura amante Cordula Poletti (1885-1971).
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