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Houellebecq e l’estetica della depressione (4)

La decadenza degli uomini e delle strutture dell’occidente liberale è al centro anche di Serotonina (2018). «Ecco come muore una civiltà, senza seccature, senza drammi, senza spargimento di sangue, una civiltà muore semplicemente per stanchezza», si legge.

Serotonina

La storia è semplice e raggelante: un membro della nostra civiltà moderna e laicista, laureato in agraria (come Houellebecq), più che benestante, ad un certo punto viene attanagliato dalla noia di vivere. Così inizia il suo ripensamento della vita che lo conduce a viaggi nei luoghi che ha amato, all’isolamento, al desiderio di morte. In queste avventure di un uomo di 46 anni che si trova a pensare al suicidio (il pensiero si insinua piano piano), trova voce una denuncia lucida, sull’insensatezza del mondo laicista che sta divorando l’Occidente. Questa denuncia narrativa arriva dall’interno di quella cultura, da un uomo che appartiene a quel mondo. Angosciato, il protagonista si isola e tocca i luoghi del suo passato. Non ha preoccupazioni economiche (i suoi genitori si sono suicidati lasciandogli molti soldi), abbandona il lavoro, lascia la casa dove vive con una fidanzata dedita ad ogni perversione, si trasferisce in un albergo, il Mercure. Da lì inizia un lungo viaggio nella Francia profonda. Prima, per curare il suo malessere, si fa prescrivere un farmaco che aumenta la secrezione di serotonina nel suo corpo.

È il medico Azote che glielo prescrive (Azote, Mercure, Alcool, il libro è percorso da una metafora alchemica di trasformazione e dissoluzione). Comincia poi a ripercorrere i periodi della sua vita e le donne che ha amato: in particolare Camille. Il ricordo di lei, che ha lasciato andare via, lo tormenta. Ha perso quel che vale di più: una ragione per vivere, una donna amata, forse la possibilità di avere dei figli. Il farmaco che prende lo porta a uno stato di inedia sessuale (tema comune ai romanzi di Houellebecq) e questo lo manda in crisi. Capisce anche che ciò che conta tra uomo e donna non è soltanto il sesso. C’è di più: i figli, ad esempio. E se ha lasciato andare Camille era stato perché non «era stato formattato» per la famiglia e riteneva «come i contemporanei» che la carriera di una donna fosse sopra tutto. Era stato un errore tragico che stava pagando con la perdita di senso della propria vita. Nel suo presente disperato, poco prima di cercare di nuovo Camille, incontra un vecchio amico, Aymeric, che lo ospita volentieri nella sua grande casa vuota. Aymericè esponente di un’antica famiglia aristocratica francese. È divorziato, infelice, depresso e forte bevitore. Si è dedicato all’agricoltura ma l’agricoltura francese è in rovina. Così muore durante uno scontro a fuoco con la polizia manifestando contro le politiche agricole della UE.

Il protagonista capisce che la modernità è un fallimento, che le politiche comunitarie hanno devastato un settore un tempo prospero. Quanto al protagonista, non è un “tradizionalista” ma nemmeno un “moderno”. Dopo una ricerca ritrova Camille, a spia da lontano notando che ha un figlioletto. Quel bambino è un ostacolo per i suoi piani tanto che arriva a progettare di ucciderlo. Tolto di mezzo il bambino, avrebbe avvicinato Camille: l’avrebbe consolata, forse avrebbero avuto un figlio. In questo delirio sogna una vita con lei, portando il suo piano folle al limite, ma poi lo abbandona quando è già appostato con il fucile. La confusione del protagonista è una critica alle certezze del “progressivismo”: a seguirne i miti si perde il senso delle cose. Al centro esatto del romanzo rievoca la morte di un signore al cui funerale lui e Camille avevano partecipato 20 anni prima:suo malessere, si fa prescrivere un farmaco che aumenta la secrezione Il protagonista capisce che la modernità è un fallimento, che le politiche comunitarie hanno devastato un settore un tempo prospero. Quanto al protagonista, non è un “tradizionalista” ma nemmeno un “moderno”. Dopo una ricerca ritrova Camille, a spia da lontano notando che ha un figlioletto. Quel bambino è un ostacolo per i suoi piani tanto che arriva a progettare di ucciderlo. Tolto di mezzo il bambino, avrebbe avvicinato Camille: l’avrebbe consolata, forse avrebbero avuto un figlio. In questo delirio sogna una vita con lei, portando il suo piano folle al limite, ma poi lo abbandona quando è già appostato con il fucile. La confusione del protagonista è una critica alle certezze del “progressivismo”: a seguirne i miti si perde il senso delle cose. Al centro esatto del romanzo rievoca la morte di un signore al cui funerale lui e Camille avevano partecipato 20 anni prima:

«sentii dire mentre seguito il corteo, che aveva vissuto bene». Il parroco veniva da lontano, «a causa della desertificazione, della decristianizzazione». Ma questa volta si trattava di un funerale facile: «l’essere mortale che si era appena spento non aveva mai trascurato i sacramenti, la sua fedeltà era rimasta intatta, un vero cristiano aveva appena reso la propria anima a Dio, e poteva affermarlo con certezza: il suo posto era per sempre accanto al Padre. I suoi figli presenti potevano certo piangere, poiché il dono delle lacrime era stato concesso all’uomo, ed era necessario, ma non dovevano nutrire alcun timore, presto si sarebbero ritrovati in un mondo migliore in cui la morte, la sofferenza e le lacrime erano abolite».

La sincera nostalgia per il mondo

Un’isola di pace, di spiritualità, che dissolve per qualche pagina la tetraggine del libro, la tetraggine di Houellebecq. L’autore non usa ironia, non esercita il sarcasmo, perché prova sincera nostalgia per il mondo perduto. Nel paesaggio spesso nebbioso, triste, che attraversa, a tratti ci sono momenti di assoluta pace e bellezza. Anche in questo romanzo Houellebecq mostra nostalgia per ciò che è andato perduto, pur non aderendo a quel mondo di valori che, per quanto fragili, un tempo cercavano di migliorare la società. Disapprova però il suo mondo, quello in cui si è trovato a vivere. Irresistibilmente, allora, si sente attratto soltanto dalla morte. Nell’ultima parte del racconto, il protagonista si rinchiude in una stanza spoglia, stampa le foto delle poche persone che hanno contato nella sua esistenza e pensa di gettarsi da una finestra. Ci pensa freddamente, calcolando il numero di secondi che lo separano dall’impatto sul cemento. Ignoriamo, però, se s’uccida davvero.

Houellebecq

Un libro nichilista? Certo, ma non è questo il punto. Houellebecq ha il merito di essere insolitamente sincero. Un libro che racconta la crisi del non pensiero nichilista dall’interno. Houellebecq non si maschera dietro battaglie ideologiche di risulta: omosessualismo, multiculturalismo ideologico, ecologismo, animalismo, quello che potremmo chiamare “progressivismo”, insomma. Che, anche per Houellebecq, è un travestimento del nulla. Egli, infatti, pare invidiare la dimensione spirituale che evoca con rispetto formale. E denuncia, ad esempio, l’uccisione di Vincent Lambert (riportato dal Corriere della Sera del 19 luglio 2019). Chi dovesse affrontare Serotonina è avvertito: contiene oscenità, parolacce, volgarità perché queste sono nel nostro mondo. Contiene pure un’energica autocritica culturale nei confronti di quegli ambienti che in Sottomissione, lo stesso autore definiva le nostre società occidentali e socialdemocratiche: abbiamo ceduto a un’illusione di libertà individuale, di vita aperta perché quelle idee errano nello spirito del tempo e vi ci siamo conformati, a lasciarcene. In realtà Dio si occupa di noi, pensa a noi in ogni istante e a volte ci dà direttive molto precise.

Questi slanci d’amore che affluiscono ai nostri petti, […] queste illuminazioni, queste estasi, inspiegabili se consideriamo la nostra natura biologica […] sono segni estremamente chiari. E oggi capisco il punto di vista del Cristo il suo ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per questi miserabili? È proprio necessario essere così esplicito? Parrebbe di sì”. Resta il dubbio: si uccide, il protagonista? Il protagonista riflette il vero pensiero di Houellebecq, già ammiratore di Comte e dei raeliani? Forse.

Contro il mondo, contro la vita

A questo punto possiamo scoprire che Houellebecq aveva già illustrato il suo mondo disperato in quella specie di biografia intellettuale scritta nel 1991 su Howard Philipps Lovecraft (Contro il mondo, contro la vita), lo scrittore americano, rifondatore della letteratura dell’orrore che, convintosi che il mondo sia basato su una lotta senza quartiere di interesse, aveva perso ogni fede e ogni fiducia nell’umanità. Divenuto un materialista assoluto, era sprofondato, o meglio si era rifugiato, in un mondo fantastico, raccontando di razze aliene che si susseguono l’una all’altra e che rischiano di tornare dallo spazio profondo per annientare l’umanità. Un mondo di terrori insondabili sta al cuore della narrativa di Lovecraft, una narrativa difficile da dimenticare. Houellebecq aveva trovato in Lovecraft, che, a 17 anni, scoperto di non potersi più baloccare con i giochi di ragazzino, era caduto in una depressione decennale dalla quale si era salvato grazie all’invenzione dei suoi “miti” (I miti di Cthuluh, Nyarlathothep ecc). Divenuto il “Solitario di Providence”, Lovecraft scrisse moltissimo pubblicando soprattutto sui giornali di pulp fiction e ispirando generazione di scrittori dell’orrore, che hanno ripreso e allargato il suo universo narrativo, condividendone luoghi, nomi e persino personaggi

Il “Solitario di Providence”

Nel mondo di Lovecraft la vita non ha senso, e nemmeno la morte. Non l’eroismo, non l’amore, non qualsiasi tipo di impegno e tantomeno l’amore o la continuazione della specie nei figli. Volgare per lui parlare anche di denaro, cosa che non lo interessava per nulla. Dal sentimento amoroso, a parte un brevissimo matrimonio (poco convinto), si era tenuto sempre alla larga. Il successo postumo di Lovecraft, soprattutto fra i contemporanei – in vita aveva pubblicato soltanto su riviste pulp come Weird Tales – è, secondo Houellebecq, un sintomo. Egli è un maestro, un generatore di sogni e incubi. I suoi libri, che rispecchiano il pessimismo cosmico dell’autore sono un sintomo: perdendo la fede, l’Occidente sta perdendo tutto e si sta così consegnando a orrori indicibili. Strutturalmente, i testi di Lovecraft sono dei racconti che narrano discese agli inferi di personaggi inconsapevoli che vengono messi di fronte a realtà spaventose: nel suo caso (soprattutto nei cosiddetti “grandi testi” degli anni 1926-1937) si tratta di mostri, creature che provengono dagli abissi del tempo e dello spazio ma non hanno nulla di preternaturale. Sono stati generati casualmente, come l’uomo, dai vortici di atomi. Non sono superiori, possono essere più potenti e pericolosi. Se l’uomo è cattivo come dubitare che anche questi esseri siano maligni? Da qui il senso di orrore, disperazione, solitudine. Unico antidoto? L’ignoranza, il non-sapere o la morte.

I testi di Houellebecq, come quelli di Lovecraft, sono viaggi di conoscenza dentro una realtà abitata da personaggi che prendono coscienza di quanto sia spaventosa la prospettiva di una vita senza senso, senza orizzonte soprannaturale, senza Dio. Quando finisce la prima giovinezza, soltanto l’alcool o l’eccitazione dei sensi possono, secondo lui, dare requie. Per questo osserva la possibilità che un Occidente, se orfano della Chiesa, possa, forse, arrivare a sottomettersi all’Islam. Come già fece, del resto, proprio René Guénon e fecero una serie di intellettuali che lo seguivano, leggevano e ammiravano, nel primo dopoguerra.

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Mario Arturo Iannaccone

Mario Arturo Iannaccone

Mario Arturo Iannaccone si è laureato in Lettere all’Università degli Studi di Milano, specializzandosi in Storia del Rinascimento. È romanziere e saggista. Insegna Scrittura Creativa all’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia. Ricercatore storico e studioso di storia dell’immaginario e delle idee, ha pubblicato molti libri e centinaia di articoli, collaborando con mensili, settimanali e quotidiani.

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